Sant’Antonio Abate è il primo degli abati e uno dei più illustri eremiti della storia della Chiesa. Nell’iconografia è raffigurato circondato da donne procaci (simbolo delle tentazioni) o animali domestici (come il maiale), di cui è popolare protettore. E’ invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo. Nell’Italia Meridionale per distinguerlo da Sant’Antonio di Padova è chiamato “Sant’Antuono”.

Il culto per Sant’Antonio Abate a Macerata Campania ha origini antichissime e con molta probabilità si può far risalire al XII secolo. Questa affermazione trova le sue fondamenta in alcuni affreschi del portico dell’abbazia di S. Angelo in Formis, frazione di Capua (Caserta), distanti pochi km da Macerata Campania. Questi affreschi, risalenti al XII secolo, riportano in sei scene il ciclo completo delle tentazioni del maligno fatte a Sant’Antonio Abate. Essi danno conferma del fatto che il culto di Sant’Antonio Abate era già presente nel XII secolo in Capua antica (attuale S. Maria Capua Vetere) e nei suoi “casali”, pertanto è abbastanza ben motivata l’affermazione secondo la quale a Macerata Campania il culto per questo Santo risale al XII secolo.

La processione in onore di Sant’Antonio Abate a Macerata Campania

 

 

La vita

Sant’Antonio Abate, l’Eremita, di origine egiziana, nacque intorno al 250 a Coma (oggi Quemar), sulla costa occidentale del Nilo, nel Medio Egitto, presso Eracleopoli, da genitori nobili, abbastanza ricchi, e cristiani; per cui anche egli fu educato nella fede di Cristo.
Intorno al 270, quando aveva 18-20 anni, Antonio rimase orfano insieme ad una sorella più piccola di lui. La sua vocazione trova un momento determinante dopo questo luttuoso evento, quando, entrato nella chiesa dove andava di solito, udì le parole dell’angelo: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei Cieli; poi vieni e seguimi” (Mt. 19, 21).
Antonio sentì questo invito come rivolto a lui e, uscito dalla chiesa e andato a casa, affrancò famiglia, servi e schiavi e donò loro e ai suoi concittadini i poderi che aveva ereditato, vendette tutti gli altri beni, distribuì il ricavato ai poveri, ma riservò una parte di denaro per la sorella che affidò ad una comunità di pie donne.
Infine si ritirò in un luogo solitario. All’inizio si stabilì non lontano dal suo villaggio, per condurre vita eremitica, tutta dedita al lavoro, alla preghiera e alla lettura delle sacre scritture, dapprima alle dipendenze di un santo monaco, in seguito in completa solitudine.
Già in questo primo periodo il demonio cominciò subito a tentarlo in diversi modi, cercando di dissuaderlo dalla vita ascetica (contemplativa, mistica) con il ricordo delle ricchezze che aveva lasciato e con le più subdole tentazioni.
Antonio rispose agli assalti del maligno con una preghiera più intensa e un tenore di vita più austero, fatto di penitenze sempre più rigorose. Si rinchiuse allora in un sepolcro lontano dal villaggio ed infine si stabilì in un vecchio rudere abbandonato sul monte Pispir, ad est del Nilo. In quel luogo visse circa 20 anni, isolato dal mondo, respingendo con fermezza le tentazioni del demonio che lo assillava con insistenza.
Trascorso questo periodo, molti, che volevano condurre vita ascetica, si recarono da lui e così su quelle alture sorsero i primi monasteri abitati da monaci, che si ponevano sotto la guida spirituale di Antonio. Qui, sul monte Pispir, verso il 307, ebbe la visita del monaco Sant’Ilarione.
Quando nel 311 iniziò la persecuzione di Massimo Daia, si recò ad Alessandria per sostenere ed assistere i perseguitati.
Terminata la persecuzione, Antonio ritornò nella sua dimora nel deserto ma, desiderando un luogo ancora più solitario, si unì ad una carovana di Arabi e si inoltrò per tre giorni di cammino in una località completamente disabitata. Si fermò presso una montagna distante 30 miglia dal Nilo.
La fama della sua santità era ormai nota in tutta la regione e molti si recavano da lui per chiedere grazie e guarigioni. Per sua intercessione il Signore permetteva che si compissero miracoli e conversioni.
Per questo il demonio si accaniva sempre più contro di lui con tentazioni e visioni spaventose.
Da questo posto si recò a visitare il primo eremita San Paolo. I monaci del Pispir non tardarono a ritrovare le tracce e si organizzarono per recargli una scorta di viveri.
Quando si rese conto che si stava avvicinando la morte, Antonio si recò al monte Pispir per l’ultima esortazione ai suoi discepoli, incitandoli a non scoraggiarsi nella pratica ascetica. Dopo la visita tornò ad Alessandria per combattere gli ariani e le loro eresie. Di ritorno al suo eremo vicino al Mar Rosso, si ammalò.
Poiché nel corso degli ultimi quindici anni due suoi discepoli, Macario e Amathas (a cui aveva concesso di far vita comune con lui), lo avevano amorevolmente assistito, lasciò loro le ultime volontà: avrebbero dovuto consegnare parte del suo vestiario ai vescovi Atanasio e Serapione; trattenere un pezzo del suo cilicio per loro due e seppellire il suo corpo in un luogo segreto per evitare che fosse imbalsamato e conservato, come d’uso fra gli Egiziani.
Antonio si spense all’età di 105 anni, il 17 gennaio del 356.

 

Le opere

San Girolamo ci fa sapere che Antonio scrisse sette lettere ai suoi discepoli. Di esse ne rimane una sola (la prima), autentica, quella indirizzata all’abate Teodoro ed ai suoi monaci. Le altre lettere ricordate da San Girolamo, nelle quali doveva esserci stata buona, se non completa, parte del pensiero cristiano di Antonio e del suo testamento spirituale, sembrano perdute, quelle pervenute in latino probabilmente non si possono identificare con queste. Le istruzioni che Antonio dava ai suoi monaci, tranne quelle conservate da Sant’Attanasio, sono perdute.

 

Le reliquie

Verso il 561, sotto l’imperatore Giustiniano, fu scoperta la sua sepoltura grazie ad una rivelazione e le reliquie furono trasportate ad Alessandria d’Egitto e deposte nella chiesa di San Giovanni Battista. Nel 635, in occasione dell’invasione araba in Egitto, i resti mortali di Sant’Antonio Abate furono traslati a Costantinopoli da dove un crociato, di ritorno dalla Terra Santa, li portò in Francia, a Saint Didietr de la Motte (XI secolo). La chiesa costruita per accogliere i resti del Santo fu consacrata da Callisto II nel 1119 e vicino ad essa sorse un ospedale, condotto dagli Antoniani, che accoglieva i pellegrini che vi si recavano per invocare il Santo che godeva la fama di essere guaritore dall’ergotismo (intossicazione dall’alcaloide della segale cornuta), meglio conosciuto come “fuoco di Sant’Antonio”.
In seguito i resti di Antonio, la cui santità si era già diffusa in tutto il mondo cristiano, furono traslati a Saint-Julien presso Arles (Francia), ove tuttora riposano all’interno di una preziosissima urna.

 

Il culto

Il culto di Sant’Antonio Abate cominciò, per certi aspetti, durante la sua vita. Infatti, San Girolamo (in “Vita Hilarionis”) attesta le preoccupazioni del Santo perchè un certo Pergano, ricco signore dell’Egitto, si riprometteva di trasportarne il corpo nella sua proprietà per erigergli una chiesa. Inoltre, Sant’Attanasio, che riferisce la proibizione ai suoi due discepoli di manifestare ad alcuno il luogo della sepoltura, conservò con grande venerazione la tunica e il mantello che egli stesso, molti anni prima, gli aveva regalato.
Ma il culto di Antonio varcò ben presto i confini dell’Egitto e si diffuse nell’Oriente e nell’Occidente. Sant’Eutimio, abate in Palestina (anno 473), ne fece celebrare la festa per la prima volta il 17 gennaio e fu ben presto imitato da Costantinopoli.
In Occidente la festa appare segnata al 17 gennaio nel “Martirologio Geronimiano” ed in quello storico di Beda (il “Venerabile”).
Fu venerato in modo particolare dal popolo, il quale faceva ricorso a lui contro la peste, contro i morbi contagiosi e contro il cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio”. La popolarità del culto incrementò una ricca iconografia, favorì la pia consuetudine di imporre il suo nome ai bambini e quella di intitolargli ospedali, confraternite, chiese, oratori, edicole.
Fu la stessa “pietas” popolare ad attribuirgli poteri taumaturgici di protezione agli animali domestici ed è per questo che spesso nelle sue immagini sono riportate galline, oche, conigli, buoi, cavalli, ecc…
Il luogo della sepoltura era ancora sconosciuto quando Sant’Attanasio ne scriveva la “vita”. Verso il 561, sotto l’imperatore Giustiniano, fu scoperto il suo sepolcro per mezzo di una rivelazione.
La “Vita” di Antonio fu scritta da Sant’Attanasio (la “Vita Antonii”, n.d.a.), che cita persino un intero discorso (cf. PG, XXVI, coll. 835–976), in cui è riassunta la dottrina ascetica del santo anacoreta. L’opera fu scritta nel 357 secondo alcuni, nel 365–73 secondo altri, tradotta in latino nel 388 da Evagrio di Antiochia. Questa “Vita”, la cui autenticità è ormai indiscussa, ha fissato gli aspetti e i caratteri più frequenti della letteratura agiografica monastica e del culto di Sant’Antonio Abate. L’opera di Sant’Attanasio diffuse largamente la conoscenza, diede l’avvio ad un’abbondante letteratura di esaltazione delle meraviglie del Santo, incrementandone il culto. La figura di Antonio è sempre molto popolare e il suo culto, diffusissimo, risale al secolo IV in Oriente e si propagò ovunque nei secoli successivi.
La sua vita narrata da Sant’Attanasio nella seconda metà del IV secolo, e integrata da San Gerolamo, ebbe larghissima popolarità dopo la divulgazione fattane nel XIII secolo dalla “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. Da quel momento la letteratura del culto di Antonio si fa ricchissima, non soltanto in Italia, dove si trovano le immagini più antiche del Santo, ed i più antichi cicli della sua leggenda, ma anche altrove, soprattutto in Germania, dove abbondano sue rappresentazioni nella pittura e nell’incisione.

 

Peculiarità della vita di Sant’Antonio Abate (da “Il Grande Libro dei Santi”)

Nell’opera agiografica “Vita Antonii”, attribuita a Sant’Atanasio (anno 357), l’esperienza ascetica di Sant’Antonio Abate è descritta con le seguenti più evidenti caratterizzazioni:

  1. lotta contro Satana e i demoni; 
  2. miracolose guarigioni e profezie;
  3. rapporti esemplari, per profondità e spessore umano, con i monaci discepoli;
  4. il suo relazionarsi con il mondo laico.
1 – La lotta contro Satana e i demoni

Aspirando ad una forma assoluta del servizio di Dio, l’eremita lascia il mondo e vive da solo, ritirandosi ad una distanza sempre più grande, fino a raggiungere il deserto, il luogo della estrema solitudine. Ma, staccandosi dal mondo, non sfugge alle minacce e agli assalti dei demoni e del loro maestro, il Signore di “questo mondo”, Satana.
La lotta è un combattimento personale, monaco contro demone.
Antonio parla con i demoni: li interroga sulla loro natura e la loro dimora. Essi rispondono, rivelando la propria ostilità ed il desiderio di sconfiggerlo, deplorando il loro insuccesso.
Non si tratta soltanto di un conflitto verbale, ma anche di uno scontro fisico. I demoni si presentano per battere Antonio, o appaiono sotto forma di bestie pericolose per terrorizzarlo. Satana gli appare sotto forma di una bella donna per sedurlo e vanificare il suo sforzo ascetico, o prende l’aspetto di un turpe ragazzo nero, che rappresenta la fornicazione, o di un mostro, metà uomo e metà asino.
Antonio combatte con incessanti preghiere, l’uso frequente del segno della croce, i digiuni, l’astinenza, le veglie notturne: tutte armi proprie della lotta ascetica.
La vittoria finale tocca ad Antonio, o meglio, a CRISTO.

2 – Guarigioni miracolose e profezie

Il potere di operare miracoli, guarendo da malattie gravi o vedendo cose sconosciute e lontanissime o prevedendo il futuro o producendo con la preghiera fenomeni naturali, è un dono di Dio al grande Asceta.

In seguito alle preghiere di Sant’Antonio Abate, Dio fece sgorgare acqua in un luogo arido; inoltre, quando due monaci che andavano da Antonio si trovarono in pericolo nel deserto, il “Signore gli mostrò cosa stesse succedendo lontano”.
Nelle considerazioni di chi ha scritto la “Vita Antonii” questi eventi miracolosi si sono spesso visti come parte della lotta contro Satana e i suoi seguaci: molte guarigioni hanno così la forma di esorcismi. In altri casi Sant’Antonio Abate ottiene la guarigione dei malati con la preghiera.

La capacità di vedere lontano e di conoscere il futuro era una caratteristica propria di Antonio. Spesso sapeva chi sarebbe andato a trovarlo e per quale ragione. Dalla sua dimora sulla montagna vide andare in Paradiso l’anima di Ammonio, che viveva come un eremita in Nitria ad una distanza di tredici giorni di cammino: in seguito si verificò che Ammonio era morto proprio nel momento in cui Sant’Antonio aveva visto la sua anima ascendere al cielo.
Antonio preannunciò le afflizioni della Chiesa, causate dall’eresia ariana e predisse la morte di Balakias, “dux Aegypti”, che perseguitava la cristianità ortodossa. Il suo rifiuto dell’Arianesimo non ne compromise la crescente venerazione e la sua fama di taumaturgo e di veggente si diffuse ovunque.

3 – Rapporti con i discepoli – 4 – Contatti con il mondo laico

Antonio scelse di vivere da solo, come un eremita e col passare del tempo anche lui ebbe dei seguaci ma, come lui, anch’essi erano eremiti.
I contatti con lui e tra loro, tuttavia, erano frequenti. Vivere da eremita non comportava, infatti, un completo isolamento dall’umanità. Agli inizi della sua vita ascetica Antonio rimase in contatto con gli abitanti del suo villaggio. Il lavoro manuale (intrecciare cesti) gli forniva piccoli introiti per comperare ciò di cui aveva bisogno per vivere e per aiutare i poveri. In seguito, nel deserto, offriva prodotti da lui stesso confezionati ai molti visitatori, per ricambiarli dei loro regali.
La grande innovazione introdotta da Antonio fu proprio quella di vivere nel deserto. Prima di lui gli asceti vivevano in prossimità dei loro villaggi, come fece lui appena chiamato da Dio.
Durante i venti anni di vita nella fortezza del deserto (il suo primo periodo da vero eremita), visse in completo isolamento.
Ma poi vi fu una folla di amici intimi e ammiratori, che violarono la sua solitudine e che, a seguito delle loro visite, conquistati dalla parola e dal suo esempio, scelsero la vita eremitica. Antonio fu padre di tutti loro e spesso andava a trovarli per rafforzare la loro decisione. Inoltre scriveva a monaci, che avevano bisogno di sostegno, lettere di guida spirituale secondo le linee della “teologia origenista” (*).
Il modo di vivere di Antonio non contemplava una rinuncia assoluta al mondo. Non soltanto egli si mantenne in comunicazione con gli altri monaci, ma a volte appariva in pubblico per scopi caritatevoli e per difendere la fede cristiana, sempre professando fede, umiltà, carità cristiana, penitenza. Noi crediamo che proprio per effetto di un’ascesi sempre più stretta, specie in senilità, e prolungata per tanti anni, Antonio abbia meritato di diventare un “mistagogo”!

 

(*) Origenismo: il complesso delle dottrine (contrassegnate dalla ricerca o dal possesso della GNOSI o forma religiosa di conoscenza) elaborate, o ispirate, dal teologo alessandrino Origene (183ca–253ca), specialmente su una contaminazione di motivi platonici e biblici, con una notevole impronta “gnostica”. La gnosi è una forma di conoscenza redentrice di origine divina, proposta da una serie di movimenti di pensiero di ispirazione più o meno direttamente religiosa.

 

La statua lignea di Sant’Antonio Abate conservata a Macerata Campania

La statua lignea di Sant’Antonio Abate conservata e venerata a Macerata Campania (Caserta) risale fra la fine del XVIII secolo e l’inizio XIX secolo. La scultura, per quanto alterata da ridipinture, appare come un lavoro ottocentesco ispirato a modelli settecenteschi. Lo scultore che l’ha realizzata, di cui si ignora il nome, risulta essere nella manifattura di cultura napoletana.
Nella versione originale il Santo, in piedi con un’altezza di 170 cm, si poggia con la destra al bastone a T e con la sinistra tiene il libro su cui arde la fiamma. Il saio è bianco e il manto è nero. Gli occhi sono di vetro e ai piedi vi è un porcellino.
Purtroppo la statua arriva al giorno d’oggi senza la figura del porcellino, il quale nel corso degli anni ha incontrato diverse sventure. Infatti, il porcellino originale in legno risulta trafugato; sostituito con una copia in ceramica, essa è andata distrutta in seguito agli spostamenti della statua che ha subito negli anni.
Nella base della statua ritroviamo la scritta “A dev.ne di Maria Stella Palmieri”, cioè riporta il nome della persona che ha donato la statua alla Parrocchia di San Martino Vescovo.
Se esaminiamo la configurazione originale della statua lignea essa presenta le seguenti testimonianze iconografiche:

  1. il bastone a T;
  2. il libro;
  3. la fiamma – il fuoco;
  4. il porcellino.

Tali testimonianze iconografiche, che possono essere viste come semplici attributi artistici, hanno una enorme importanza simbolica-iconografica, base della comprensione dell’aspetto folcloristico-allegorico della manifestazione di religiosità, che a Macerata Campania si identifica con la “Battuglia di Pastellessa”.
Le analisi dell’iconografia antoniana, fatte da eminenti studiosi, hanno concluso, quasi unanimemente, che:

  1. il bastone a forma di T (tan) appartiene all’iconografia più antica nella forma classica di un bastone per semplice appoggio, ma più tardi prende la forma a T, come il “tau” egiziano/greco, al quale veniva attribuita la forma simbolica della vita futura;
  2. il libro rappresenta certamente il Libro della Regola monastica, di cui il Santo, taumaturgo ed esorcista, fu ispirato lettore e fecondo trascrittore;
  3. la fiamma – il fuoco rappresenta uno degli attributi iconografici più importanti del Santo perché accenna alla malattia volgarmente detta “fuoco di Sant’Antonio” (altrimenti detto “herpes zoster”) ed alle numerose guarigioni ad essa relative. In senso figurato, il fuoco rappresenta la purificazione dell’anima dal peccato, la liberazione dell’anima dal possesso demoniaco, la fiamma dell’inferno nel quale Antonio si recava a recuperare anime dannate;
  4. il porcellino è sempre presente nell’iconografia del Santo. L’origine di tale costante presenza è da far risalire storicamente ad un “privilegio” dell’Ordine Antoniano del 1095, secondo il quale i monaci di Sant’Antonio Abate allevavano i porci per il loro lardo, che veniva usato come medicamento contro il “fuoco di Sant’Antonio”.

Ma alla statua maceratese mancano altri due attributi iconografici. Uno, forse, è secondario ma l’altro è molto importante per la comprensione della simbologia di uno degli aspetti della manifestazione della religiosità laica del popolo maceratese:

  1. il campanellino;
  2. il demonio tentatore.

Dall’analisi di questi due attributi iconografici emerge che:

  1. il campanellino è collegato con i porci dei monaci antoniani. Molto spesso, nell’iconografia ufficiale è attaccato al bastone del Santo, forse in memoria del suono dei campanelli che annunciavano di lontano l’arrivo dei questuanti dell’ordine antoniano. Ma, per altri, l’iconografia del campanellino attaccato al bastone risale a quando, per un’epidemia portata dai maiali, si dovettero uccidere tutte le bestie ammalate, tranne quelle che allevavano i monaci, distinguibili da un campanello legato intorno al collo.
    Nella statua maceratese il campanellino, in argento e di manifattura ottocentesca, è presente solo come accessorio e normalmente viene posto sulla statua durante la processione del 17 gennaio dedicata al Santo. Nei restanti giorni dell’anno è conservato sotto la cura dell’Abate curato della Chiesa Abbaziale San Martino Vescovo.
    Al campanellino è collegato un antico rito appartenente al culto maceratese, secondo il quale avrebbe proprietà curative. Secondo l’antico rito, ormai non più in uso, a Macerata Campania si usava far bene acqua dal campanellino di Sant’Antuono a quei bimbi, tipo di 2-3 anni, che avevano difficoltà ad iniziare a parlare in modo da aiutarli.
  2. il demonio tentatore o i demoni tentatori testimoniano la lotta del Santo contro il demonio, che fu una sofferenza sublimante per lo spirito ma molto dolorosa per il corpo. Questo è uno degli attributi iconografici più importanti per la comprensione di un aspetto del folclore tradizionale maceratese, cioè quello dei fuochi pirotecnici “figurati”.
    Il demonio tentatore, infatti, ricorre quasi sempre sotto le sembianze femminili (o in modi di essere specificamente femminili) nell’iconografia antoniana. Ci riferiamo al tema più caro all’iconografia popolare: quello del Santo tentato nella carne dal demonio in forma di donna. Questa scena, assente nei cicli iconografici più antichi, appare per le prime volte nel secolo XIII. Le prime seduttrici che l’iconografia ci presenta hanno un aspetto normale e solo delle piccole corna, piedi di porco o alette membranacee, che ne rivelano l’origine demoniaca. Altre volte il demonio appare sotto forma di vecchia che offre fanciulle nude, oppure appare sotto le sembianze di animali (come nell’altare di Hissenheim), assumendo la forma dell’uccello dei Bestiarii, che rappresenta il simbolo della sifilide, curata sotto il patronato del Santo e di cui la donna è il simbolo.

 

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